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Onda su onda...
Una prigione per il mare


    Perché mai mi arrivano simili sollecitazioni? Io non voglio sollevare la pietra (dello scandalo?), che può nascondere un nido di serpi pronte a mordere e far male, e non ho alcuna intenzione di combattere, desidero solo riposare. Cullato dalle onde del mare? Ecco, ci risiamo! Mi accorgo che non posso, neanche questa volta, sfuggire al mio destino, solo debbo bere questo calice e svuotarne tutt'intero il contenuto.
    Così, ecco: il mare.
     Erano le nostre mamme, e prima ancora le nostre nonne, ad invecchiare cullando i propri bambini alla nenia dolce che li avvolgeva sul ciglio della marina. Oddio, il mare non era solo questo. Il mare, infatti, non è solo nenia, musicalità, il movimento brioso dei pescatori, intenti a scaricare le scaffette ribollenti di vita e di morte, al rientro, lungo i bracci del porto. Lo dice lo stesso Lucio Dalla, in una sua indimenticabile canzone, da piccolo alimentato dal nostro mare e chiamato dalla "gente del porto", non senza significato, "Gesù bambino", che il mare è anche tramestio e tormento, invasione, conquista ed inganno.
     Sono forse ricordi come questi, con il loro carico di amare esperienze, comprese le terribili invasioni turchesche, ad averci causato uno schizoide rapporto col mare.
     Per questo sembra a noi che il mare si sia chiuso e non voglia più parlare, mentre forse siamo proprio noi che non siamo più capaci di ascoltare quello che, senza riuscirci, ci vorrebbe comunicare. E' il senso di un rapporto che si è interrotto.
     Né può essere diversamente, se abbiamo accettato che negli anni il nostro mare fosse fatto prigioniero e tenuto nascosto alla città. Si parta, per favore, si parta da quel ponte sbrindellato, eternamente sbrindellato, della strada del mare, e ci si diriga alla volta della città.
     Ecco subito apparire il villaggio dei pescatori, aggrappato come piovra, su quella che una volta fu una scogliera, a rivendicare protervo il possesso del mare.
     Eppure non è, questo, quanto ci possa essere di peggio; suvvia!, il peggio deve ancora venire. Ed è l'avvio di un muro invalicabile, vero bastione a difesa della città... dal proprio mare. Non ho potuto misurare la sua altezza, ma questo altissimo muraglione di pietra viva, impastata a sputi di calce, è davvero un'invalicabile difesa dal mare, dalle docili onde vicine e da quelle azzurrissime, che ci guardano, non viste, da lontano.
     Sono questi i segni, le cose che fanno pensare al nostro mare come a un non-mare.
     Qualche anima buona, davvero molto buona, ha voluto fendere l'altissima recinzione di tempi remoti, con ancora in sé l'orgogliosa durezza di una stagione ostentatamente virile, spinto forse da vecchi ricordi in cui le donne, senza ostacolo alcuno, passando per il pertuso del monaco, immergevano i piedi direttamente nell'acqua, anche d'inverno, per battere contro gli scogli e risciacquare i panni da stendere al sole.
     Ma lo ha fatto solo laddove era possibile, evitando di toccare, sulla radice del porto, le abominevoli costruzioni che serviranno - chissà quando? - da mercato del pesce, un capannone incommensurabile e, presso la Lega Navale, un indigeribile parcheggio di macchine, per i quali molto ha potuto l'ingiuria dell'uomo e su cui, purtroppo, ancora non si è abbattuta la giustizia riparatrice del tempo.
     Meno male, però, che c'è la spiaggia, la nostra soffice spiaggia, dov'è possibile ancora gustare la gratta - rossa, verde e bianca - d'estate e guardare il passeggio come fossimo al corso, diventata ormai tutta nostra, dopo che tedeschi, francesi e italiani hanno tutti, dico tutti - e come poteva essere diversamente? - abbandonato la nostra città.
     Ma a vederla così compressa nell'adipe del tempo, la nostra spiaggia, mi viene da chiedere per quale motivo un lido così bello, con una sabbia dai riflessi dorati, deve vedersi ogni anno trasformato in carnaio?
     Basta spostarsi sul nostro litorale sud. Poche cabine, in affitto a 5000 lire al giorno. Perché tanto poco? Perché nessuno ha, in tempi così disinibiti, più bisogno di cabine. Non c'è mercato! E allora spiegatemi, chi può me lo spieghi, per favore, a chi giova tenere ancora in piedi centinaia di cabine che recingono in una tristissima prigione, fatta di bugigattoli, assi e steccati, il nostro mare. Anche se è, subito dopo, legittimo chiedersi: questo mare, così offeso, espropriato, fatto prigioniero e privatizzato, è ancora il nostro mare?
     E lasciata la spiaggia, un poco più avanti, in direzione del sole, mi fermo, balbetto, non so cosa dire, come giudicare. Qui c'è la cultura, c'è una scuola, bruttissima, ma scuola, c'è la fucina delle nuove generazione, c'è la palestra del nostro futuro. Può essere tutto questo inferiore al mare, al nostro mare? No, sembra di no. Allora chiedo sottovoce: vi pare che non vi fosse altra possibilità per questo grigio parallelepipedo, che si è mangiata la nostra scogliera? Eppure sono ancora lì i miei ricordi (non ditemi che sono vecchio!) e, in una tracimazione di sentimenti, i ricordi di tanti altri ragazzi di allora, che andavano a piedi nudi su quegli scogli, tepidissimi, a catturare, coi fazzoletti rigonfiati dall'acqua, gli avannotti guizzanti nelle basse doline.
     Ma adesso basta. Il mio cuore non riesce ad andare avanti. Per quanto sia un cuore coriaceo, di un razionalista imperituro che s'ostina a trovare un'illuministica sistemazione per ogni cosa reale, non ce la farebbe a guardare. Allora posso solo sbirciare di lontano, questo sì, ma non posso procedere, per non spingere al pianto questo muscolo rugoso, rigonfio d'arterie, eppure palpitante, che non riesce, non ce la fa proprio, a sopportare simile vista. Ma cos'è quel lungo serpentone d'argento, viscido come tentacolo malefico, infilato fin dentro al ventre del nostro mare, e quella recinzione grigia, altissima, che esclude dalla vista le nostre cale di panna e la perlata scogliera, su cui un giorno scorrevamo come lucertole, per cercare di capire come facesse il sole a spargere nell'acqua, increspata di vento, i mille luccichii d'argento?
     Quale maledizione è mai questa? Chi ha voluto l'indicibile scempio? Chi non ha visto, ha assecondato, ha taciuto; chi ha fabbricato per il mare una prigione, senza preoccuparsi d'uccidere la nostra cultura del mare?
    

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